Intervista al cantautore calabrese Federico Cimini

Dopo qualche anno di pausa dalle scene, il cantautore calabrese Federico Cimini ricomincia a divertirsi con la musica. Il risultato è Ancora Meglio, disco pop d’autore in uscita il prossimo 9 marzo, che raccoglie in sé ansie, speranze, amori, illusioni, disillusioni: personali sì, ma cantate con tale sensibilità da poter essere sentite come proprie da chiunque, in particolare da quei ragazzi tra i venti e i trent’anni alla ricerca costante di un posto nel mondo, insicuri e privi di certezze, prodotto di una società dominata dalla corsa alla perfezione e che sembra dimenticare chi arriva ultimo. Una specie di selezione naturale, una gara senza vinti o vincitori, perché alla fine tutto quello che abbiamo – o che non abbiamo – conquistato si rivela effimero. E perché quello che veramente conta risiede nella profondità, nella complessità, nella bellezza delle nostre fragilità, nell’odore di salsedine di un paesino di provincia.

Ne abbiamo parlato con l’artista a pochi giorni dall’uscita dell’album.

Ancora Meglio. Si tratta di un disco piuttosto intimo, scritto a seguito di «un periodo di sconforto personale», come tu stesso hai più volte dichiarato. Ma le ansie di cui parli (vedi La legge di Murphy) sembrano essere quelle di tutta una generazione…

«Sì, è esattamente così. Quando fai questo lavoro e ti trovi ad attraversare un momento di tristezza, è inevitabile che le tue angosce siano anche un po’ quelle degli altri, alcuni sentimenti sono universali. Non a caso, diversi amici e conoscenti mi hanno telefonato dopo aver ascoltato proprio La legge di Murphy confessandomi di sentirsi allo stesso modo descritto nel brano. Questo mi ha fatto molto piacere, mi ha aiutato a sentirmi meno solo, a capire che in fondo è il mondo in cui viviamo a portarci prima o poi ad attraversare un lato oscuro, una zona d’ombra. Insomma, siamo la generazione dell’ – hashtag – maiunagioia!».

Come mai la decisione di non apparire e di non rilasciare interviste in corrispondenza dell’uscita dei primi singoli?

«Un primo motivo è legato, per così dire, alla vetrina: c’era la voglia di marcare in maniera netta lo stacco col passato, far venire fuori qualcosa di più maturo, di più pop. La strategia è stata pensata soprattutto come satira sociale, una presa in giro nei confronti della moda dell’anonimato sempre più diffusa nell’attuale mondo della musica, e non solo. La vera necessità era quella di far uscire la canzone, non tanto che ci si focalizzasse su di me e sulla mia personalità, quanto sulla musica. Tant’è che per strada nessuno mi fermava o mi riconosceva, ma i riscontri sugli ascolti e le visualizzazioni sembrano aver premiato i brani».

Una casa sulla luna è stato pubblicizzato e diffuso attraverso le instagram stories, che hanno preso il posto del classico videoclip musicale. C’è un messaggio profondo dietro questa modalità originale, ma anche evanescente e frammentata (si tratta di immagini o video generalmente di breve durata) di promuovere il lavoro?

«Una casa sulla luna parla della Calabria. C’è dentro un paese di mare, la vita di provincia, l’ansia, la noia di un pomeriggio di gennaio, il tempo che sembra non passare mai. C’è il posto in cui sono nato e cresciuto (San Lucido, in provincia di Cosenza, ndr), l’odore di salsedine che riuscivo a sentire anche dal più alto terrazzo. Parlo di questa inquietudine attraverso il ricordo: 25 frame su Instagram della durata di 24 ore ciascuno (poi, come sappiamo, svaniscono). Era il  modo più giusto per farlo, su YouTube non ci stava».

Hai parlato più volte di differenze notevoli col precedente lavoro, Pereira, di un taglio drastico col passato. Sembra non si tratti solo di una questione musicale. C’è voluto del coraggio per tirare fuori le tue paure e raccontarle così, senza filtri?

«C’è stato un momento nella mia vita, intorno ai 27 anni, in cui ho pensato di voler abbandonare per sempre la musica. Sentivo di non avere più certezze, non avevo ancora portato a termine gli studi e, soprattutto, non mi divertivo più. La spinta a volermi rimettere in gioco è arrivata proprio nel momento in cui ho archiviato definitivamente il passato. Ho messo sù una nuova band, con una nuova etichetta, la Garrincha Dischi, che considero la mia nuova famiglia e che ringrazio. Non mi sono mai posto il problema del coraggio, sentivo semplicemente il bisogno di condividere, di parlare».

Sempre in Una casa sulla luna dici: «Soffro l’ansia di volere tutto/e di non accontentarmi mai». Come si sopravvive in un mondo fatto di finzione, di competizione continua, in cui non conta nient’altro se non i like, l’apprezzamento altrui, il successo? C’è per tutti, anche per gli altri, Un’altra possibilità?

«Un’altra possibilità? Be’, senz’altro dipende da noi, anche se non ritengo di poter essere io a dare agli altri ricette su come fare. Io, dal mio canto, penso che la si possa trovare nel divertimento: se siamo ancora capaci di divertirci, allora siamo salvi. E poi io vengo dalla Calabria: ci si lamenta sempre del fatto che non ci sia nulla da fare e che nulla funzioni, ma io ogni volta che torno resto estasiato. C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, da vedere, qualcosa a cui non avevi fatto caso. Perciò, sono io che lo chiedo a te: secondo te c’è?».