Alla reggina Dalila Ribaudo il premio Researcher of the Year della prestigiosa Aston University di Birmingham (Regno Unito)

A soli 32 anni, la reggina Dalila Ribaudo, docente e ricercatrice presso il Dipartimento di Economia, Finanza e Imprenditorialità della Aston University di Birmingham, conquista il premio di Researcher of the Year per le sue pubblicazioni e l’attività di ricerca in campo economico: “Un buon 30% delle cose che ho fatto nella mia vita le devo al mio essere calabrese. La mia più grande fonte di ispirazione? I miei genitori: quando io ero al nido loro combattevano la mafia nelle strade di Palermo. E sì, in Calabria le imprese possono farcela, con le infrastrutture giuste”.

Combattere per un autobus che non arriva mai in orario o per un treno che non c’è, a volte, può diventare la “scintilla” che ti cambia la vita, quando hai anche punti di riferimento solidi e integerrimi. Così è stato per Dalila Ribaudo che, di queste piccole-grandi difficoltà, ha fatto lo spunto per studi economici e scientifici già coronati dal prestigioso riconoscimento come ricercatore dell’anno alla Aston University di Birmingham, in Inghilterra. Premio che, per inciso, la coglie di sorpresa: “Ero andata alla cerimonia perché sapevo che ci sarebbe stato un sontuoso barbecue”.

Arduo riuscire a sintetizzare il suo curriculum vitae, tante sono le esperienze che – nella sua giovane vita – è riuscita a mettere insieme.

Ha pubblicato in soli otto mesi una ricerca di primo piano in ambito economico, è direttrice di un corso di laurea e ama i propri studenti, che non perde mai di vista. E ancora: esperienze internazionali in vari Paesi del mondo e pubblicazioni all’attenzione della comunità scientifica internazionale.

La passione per lo studio e la ricerca ha guidato il suo percorso verso il successo, consentendole di emergere tra i migliori talenti accademici del panorama inglese e di quello italiano all’estero. Dalila si posiziona così come un punto di riferimento nel suo settore, onorando la Calabria e l’Italia intera.

Dalila, raccontiamo questo percorso così entusiasmante?

Ho iniziato il mio percorso di studi all’Università statale di Messina nel 2011 – che sembra veramente tanto tempo fa. Ho una Triennale in Scienze dell’amministrazione e dello Sviluppo economico, un indirizzo che faceva parte della facoltà di Scienze Politiche ma con una attenzione a dinamiche di sviluppo economico, sia a livello locale che internazionale.

Il mio percorso universitario è iniziato un po’ in salita, perché molto spesso – quando si viene fuori dalla scuola – non si ha la percezione di che cosa sia l’ambiente universitario, la competizione, lo stress che deriva da studiare cose nuove, e spesso con un livello di difficoltà maggiore, ma è stata una esperienza formativa importante, non solo a livello accademico ma soprattutto a livello umano, perché – forse – fallire qualche esame ti insegna tanto: ti insegna un nuovo metodo di studio ma anche a superare le difficoltà della vita, che esistono – fisiologicamente. Ogni persona ha delle sue difficoltà nell’elaborare, ad esempio, un proprio metodo di studio, che può sembrare una cosa banale ma non lo è. Si dice che “Ci sono fiori che sbocciano un po’ più tardi”. Penso che la cosa della quale vado più fiera siano state le espressioni dei miei genitori quando ho raggiunto l’obiettivo.

Il primo ambiente universitario nel quale ho fatto esperienza non mi ha soddisfatto per quello che volevo fare io. Ovvero, continuare un percorso – sotto l’ombrello delle scienze politiche – ma con un’ottica internazionale e con un focus molto preciso sugli studi di economia. Ho trovato un corso di laurea molto molto bello, al quale sono tuttora affezionatissima, a Pavia, dove ho fatto la mia magistrale e mi sono trasferita lì quando avevo 23 anni. A Pavia ho avuto modo di fare esperienza in un ambiente accademico completamente nuovo, molto più proiettato verso l’esterno: tanta promozione dei programmi Erasmus, scambi internazionali, lingue straniere e, soprattutto, tanti studenti che venivano da ogni parte del mondo. Durante questa esperienza ho iniziato a sviluppare un forte interesse per materie di tipo quantitativo, come Microeconomia, Macroeconomia e Statistica. Una mia insegnante ha visto questo potenziale e mi ha incluso in diversi progetti.

Quale pensi sia stato il tuo punto di forza in questa fase dei tuoi studi?

Non mi sono mai accontentata di fare una cosa sola. Ho sempre voluto dimostrare che sono una persona seria, con i piedi ben piantati a terra e con tanta voglia di fare. Questo nella vita mi è tornato. Tanti sacrifici certamente, in momenti in cui si vorrebbe essere più spensierati, però sono stati ben ripagati. Devo aggiungere che è anche molto importante avere insegnanti che vedano il potenziale che hai e ti aiutino a farlo venire fuori.

Quali esperienze hanno segnato la tua strada professionale?

Durante la Magistrale a Pavia ho avuto l’opportunità di fare quattro mesi di ricerca a Barcellona, all’università Pompeu Fabra, nel 2017. E anche quello è stato molto molto arricchente. Ma devo aggiungere che a pochi mesi dalla mia laurea ho anche iniziato a lavorare in banca, presso quella che oggi è l’anima fintech di Unicredit. Lavoravo a Milano e facevo la pendolare da Pavia. Quella è stata un’esperienza veramente tosta perché, se c’è un passaggio educativo fondamentale dalla scuola all’università, un altro step importante è quello dall’università al mondo del lavoro. Ma durante quell’esperienza ho capito che immaginare la mia vita dalle 9:00 alle 17:00 in un solo ufficio, in un solo posto, proprio non era per me, non ce la potevo fare. Ho sempre amato spostarmi, viaggiare, fare tante cose. Una cosa che avevo capito durante l’università – perché avevo svolto attività di tutorato per materie come statistica applicata o economia – era che mi piaceva insegnare e fare ricerca. Così, la mia insegnante mi disse: “Perché non provi un dottorato?”. In tutto questo un’altra persona che mi suggeriva un dottorato è un insegnante con cui ho collaborato nei primi anni a Messina, il Dott. Pietro Stilo, che considero un mentore e che mi introdusse per primo in questa attività, facendomi scrivere tre capitoli di ricerche con un impianto radicato sulla realtà calabrese e anche articoli di natura giornalistica. Quindi, tante altre esperienze nei miei due anni a Pavia. Ho fatto di tutto: almeno tre tirocini, lavorato in banca, insegnato, mi sono anche laureata e, questa volta, con il massimo dei voti. Al ritorno da Barcellona ho iniziato a prepararmi per il concorso di dottorato, che ho poi vinto all’Università di Urbino. Un corso internazionale e innovativo che è stato un punto di partenza e mi ha permesso di essere dove sono oggi, perché è stato qui che ho messo a fuoco quali ricerche volevo davvero approfondire, e cioè le scelte localizzative delle imprese nelle città. Di fatto ho cambiato in tre anni tre città.

Perché le scelte localizzative delle imprese nelle città? Da dove veniva questa curiosità?

 Sono sempre stata affascinata da come le città funzionino e partivo dall’idea che le infrastrutture dei trasporti avessero molto a che fare con il modo in cui le città si espandono e che fungessero da fattore di spinta per le imprese. L’idea era: “Se io sono una impresa, vado dove ho determinate infrastrutture di trasporto”. In questa riflessione c’era senz’altro la mia esperienza: vengo da un posto molto carente dal punto di vista infrastrutturale e ne ho sofferto. Ho pensato: se queste infrastrutture interessano me, sicuramente interesseranno anche altre persone che devono scegliere dove avviare una impresa. E infatti è così.

Quindi arriva la prima esperienza in Inghilterra. Ma decidi di ritornare in Italia. Come mai?

Al mio secondo anno di dottorato mi trasferisco a Reading, in Inghilterra, alla Henley Business School, perché il mio secondo supervisor – che è un esperto di geografia economica e International Business – è professore ordinario in questa università. Doveva essere un’esperienza di soli 3 mesi: ci sono rimasta un anno e mezzo. C’è stata anche la spiacevole pausa Covid in mezzo. Di fatto ha iniziato a piacermi l’ambiente accademico inglese, la disponibilità dei colleghi, il contesto internazionale e poi anche il legame accademico che si è creato con i colleghi. Durante quel periodo ho anche insegnato: avevo questo corso gigantesco di 300 persone, più o meno 150 solo io, e mi occupavo di insegnare, di fare tutoraggio a tanti piccoli gruppi. La prima volta in cui insegnavo in inglese: veramente un’ottima esperienza. Ho imparato come dare i voti agli studenti – il sistema accademico italiano, molto più severo se vogliamo e nel quale c’è tanta soggettività, è un sistema diverso. In futuro serviranno schemi più oggettivi, che lascino meno spazio a fattori aleatori. Oltre a insegnare, ho viaggiato tantissimo, perché una parte integrante del mio lavoro è partecipare a conferenze internazionali sulle tematiche di cui mi occupo e dal 2019 ho visto moltissime città e conosciuto una infinità di persone. La mia tesi di dottorato l’ho discussa con successo nel marzo del 2021. Ad aprile dello stesso anno ho vinto un assegno di ricerca all’Università di Pavia. Quindi torno a “casa”.

Come è stato questo ritorno?

In realtà io ero un po’ stanca dell’esperienza inglese: vivevo in una cittadina –  Reading – che è una città universitaria ma anche piccola. Capivo che mi sarebbe piaciuto tornare a casa, in Italia. E così è stato: ho vissuto due anni veramente bellissimi a Pavia, dove avevo mantenuto i contatti con le persone che ci lavorano. Così, ho iniziato a lavorare nel mio vecchio Dipartimento di Scienze Politiche con una delle docenti che stimo di più. È stato molto bello tornare a Pavia ed essere dall’altra parte della cattedra, forse anche un po’ strano. Per qualche tempo ancora sono riuscita anche a “mescolarmi” con gli studenti, almeno quelli della magistrale (sorride).

L’accademia inglese, l’accademia italiana, infine il ritorno in Inghilterra e l’università di Birmingham. Come è successo e cosa ti ha fatto “scegliere”?

 Prima di chiudere completamente i rapporti con l’Inghilterra avevo tuttavia fatto una sola domanda: mi sono detta che se avessi dovuto far ritorno in Inghilterra mi sarebbe piaciuto farlo all’università di Birmingham e nel Dipartimento di Economia, Finanza e Imprenditorialità, perché molto eterogeneo. Venendo da una realtà molto piccola non amo tanto le città grandissime come Londra e Milano: non ci vivrei ma mi piace averle vicine, per godere di quell’ambiente cosmopolita. In realtà io ero convinta ormai di tornare in Italia e di fare accademia qui, anche se significa fare i conti con una precarietà che ti porterai dietro, almeno in generale – poi il percorso è soggettivo. Avevo un po’ fatto pace con l’idea che avrei dovuto continuare ad avere contratti precari, almeno per 5 o 6 anni, e nonostante i migliori sforzi delle persone con le quali collaboravo. Purtroppo – per come è strutturata l’accademia In Italia – c’è poco da fare. Avevo comunque fatto questo colloquio alla Aston Business School, dove lavoro, con l’animo sereno: mi sono detta che se non fosse andata bene sarei comunque stata contenta di essere rientrata in Italia.

E invece?

Invece mi hanno presa. Forse sarà stata questa disposizione di serena accettazione del ritorno? Non lo so…Mi hanno offerto una posizione da Lecturer, che in Italia è un misto tra RTDA ed RTDB, come ricercatore e assistant Professor.

A 30 anni ricominciavi da capo, ancora. Come lo hai vissuto?

Sì. Era l’agosto 2022 e cambiavo nuovamente città, cambiavo di nuovo vita, casa, amici…A un certo punto è dura: avevo necessità di iniziare a mettere radici da qualche parte.

Il bello di viaggiare è certamente quello di cambiare città, conoscere tante realtà che ti aprono la mente, avere tanti amici, ma poi sorge il problema che i tuoi amici sono in quattro cinque Paesi diversi e avere delle relazioni così – man mano che si va avanti con l’età – diventa faticoso, soprattutto con la vita lavorativa che ci porta tutti ad essere molto presi. Quindi ho detto: “Se mi trasferisco, deve essere in un posto dove starci un bel po’ di tempo”. Ad agosto 2022 io mamma papà fratello – perché io me li porto sempre dietro – partiamo e andiamo a cercare casa, andiamo a vedere l’università, la città…

Com’è il lavoro in una università inglese e, in particolare, in quella di Birmingham?

Imprinting subito molto positivo con la città: Birmingham non sarà stupenda da un punto di vista estetico ma è una città di un milione e mezzo di abitanti, molto molto eterogenea. Ci sono tante culture, tanti colori, tanta diversità e tante anime diverse, hai uno scambio costante e poi il mio dipartimento è fatto di persone fantastiche, sono riuscita a fare un sacco di cose. Da quando sono lì lavoro tantissimo. Ho i miei studenti, i miei tesisti. Adoro fare ricerca ma insegnare è uno degli aspetti che amo del mio lavoro. Quando uno studente viene da te e ti dice “Sai, vorrei fare anche io un dottorato perché mi piacerebbe fare quello che fai tu” oppure “Vorrei che tu fossi il la mia relatrice di tesi perché mi piace molto come insegni e per me sei stata fonte di ispirazione”: anche se te lo dice uno studente su 200, è una soddisfazione immensa. Perché insegnare è un lavoro difficilissimo, soprattutto ai ragazzi di 18-19-20 anni, per le pressioni continue che provengono dalla sfera sociale e accademica; quindi, avere anche quell’attenzione verso gli studenti e capire quando qualche studente ha una difficoltà, oppure è al di sopra della media, è una sfida esaltante.

La ricerca all’estero e la ricerca in Italia: alla luce della tua esperienza, cosa puoi dirci?

Da quando sono arrivata qui ho avuto la possibilità di fare moltissimo: diverse conferenze internazionali e dopo appena otto mesi ho vinto questo Research Grant in collaborazione con due colleghe bravissime dell’Università di Cambridge (Institute for Manufacturing) di circa 50.000 sterline, messo a disposizione da un ente pubblico ai due enti universitari per poter svolgere la nostra ricerca. Beh, è tanto per una persona che non ha assolutamente esperienza. Ho pubblicato due articoli scientifici nel giro di 6 mesi: chi leggerà questo articolo e pratica la carriera accademica sa che pubblicare è una cosa lunghissima e difficilissima. Mediamente, ci si mette almeno due anni. Certamente avevo lavorato tanto e sono riuscita a far venire fuori questo bagaglio accumulato nel tempo a partire dal dottorato, ma i colleghi qui mi hanno sempre supportato. E supportato significa: “Leggi il mio articolo e mi dai qualche consiglio? Vedi un po’ come è e come posso migliorare?”. Io ho trovato persone che mi hanno permesso di crescere. Faccio anche parte di un Centro di ricerca all’interno della Business School, ho già preso la guida di un gruppo di ricerca per studi di innovazione verde e trasferimento di conoscenza e infine, da poco, sono direttrice di un corso di laurea.

Secondo te in Italia sarebbe accaduto lo stesso? Il nostro Paese crea le condizioni perché giovani menti brillanti abbiano il meritato riconoscimento e in tempi così brevi?

La risposta preferita di un economista è “dipende”. Se dico sì oppure no va bene lo stesso. In Italia il problema non è non è solo “come” sia strutturata la carriera accademica ma anche le risorse che si hanno a disposizione: il sistema inglese è un sistema privato – purtroppo, dico, perché non condivido la privatizzazione dell’istruzione e della formazione – però è un sistema che ti dà tantissime risorse. Quindi, se hai i soldi da spendere per comprare dei dati o per assumere un assistente di ricerca è chiaro che hai una risorsa in più.

Poi ci sono anche le persone: in Italia penso che abbiamo una accademia brillante e fatta di persone eccellenti, almeno quelle che ho incontrato io. Dunque non è un problema di qualità dell’accademia. Il problema è che, spesso, ci si scontra con i fondi di ricerca che si hanno a disposizione e con la possibilità di poter fornire dei contratti un po’ più stabili, che creino incentivi a rimanere. Io adesso ho 32 anni e se in Italia decidi anche solo di comprare casa tutto diventa difficile se non hai qualcuno alle spalle. In Italia non sei messo nelle condizioni di soddisfare i tuoi interessi e bisogni di vita. La qualità dell’accademia italiana è ottima: la maggior parte delle persone esperte nel mio campo sono quasi tutti italiane a livello mondiale. Il problema è che ci si scontra con un sistema burocratico farraginoso e con fondi che ogni tot di anni sembrano venire meno.

I fondi del PNRR potrebbero essere una soluzione?

Con il PNRR c’è stata una pioggia di contratti da RTDA – ricercatori a tempo determinato. Il problema è: riusciranno le università poi ad assorbire queste risorse e assumerle come professori associati quando questi fondi finiranno? A volte creiamo tanto talento che però non riusciamo ad assorbire. Questa, ovviamente, è la mia personale opinione

Essere una donna è un problema, in questo settore? Hai sentito di dover fare più fatica, oppure no?

Beh, sì. Essere donna in qualsiasi ambito professionale purtroppo è sempre più difficile che non esserlo. Questa è una realtà: ci si rende conto di tante piccole discriminazioni che quando si ha contezza di che cosa sono è anche peggio, perché le si nota di più. Il campo dell’economics è un campo fortemente maschile, tanto che esistono iniziative che si chiamano Women in economics e una delle mie mentori è una di queste “Donne”. Io, poi, ho avuto sempre riferimenti femminili molto forti dietro di me, a partire da mia madre. E anche le mie insegnanti, donne fortissime e di carriera. Quindi ho tratto ispirazione da loro, ma mi sono scontrata con la discriminazione. Un esempio: durante una conferenza stavo presentando il mio paper e alla fine c’erano delle domande di natura tecnica. La domanda è stata fatta al mio collega maschio. Vedo troppo spesso donne che presentano la ricerca e le domande vengono poi poste ai colleghi uomini. Ma io non sto zitta. Non esiste per me rimanere in silenzio: ho studiato talmente tanti anni che ho un titolo e me lo devi riconoscere.

Io e altre colleghe abbiamo subìto diverse discriminazioni e quando succede bisogna farlo notare perché, a volte, viene fatto senza neanche rendersene conto.

Premio come ricercatrice dell’anno a Birmingham. Ce lo racconti? Te lo aspettavi? Cosa hai provato?

Questa è stata una storia divertente. Sapevo di questi premi ma non esistono candidature. C’è una giuria di merito che è fatta dai colleghi del dipartimento e dalla dirigenza di tutta l’università. A fine giugno sono andata a questa riunione di tutto lo staff della Scuola delle scienze sociali dove, all’interno, c’è la Aston Business School. Sapevo che sarebbero stati dati questi Awards, ma non pensavo di poter essere tra le persone premiate. Io – da brava calabrese – ho visto che c’era il barbecue a questa cerimonia, con tanti tipi di carne, e mi sono detta: “Ma certo che vado, siamo a giugno, sono pure stanca. Andiamo”. Nessuno mi aveva detto nulla. A un certo punto ero lì e sento pronunciare il mio nome dalla rettrice dell’università, insieme alla direttrice della Scuola. All’inizio non capivo, finché ho appreso di aver vinto il premio che mi è stato conferito perché ho ottenuto i fondi di ricerca (il grant) e le pubblicazioni in fascia A in meno di 8 mesi. Ero felice e sconvolta: subito l’ho scritto sul gruppo WhatsApp della famiglia. Ero molto commossa perché significava che non solo da un punto di vista accademico – ma soprattutto umano – ero riuscita a dare qualcosa alle persone con cui lavoravo, tanto da spingere per la mia candidatura. Un attestato di stima per me importantissimo.

La tua storia credo possa ispirare molti giovani. Cosa ti senti di dire a chi vorrebbe intraprendere questa strada?

Non è stato sempre un percorso facile: molto spesso si parla di “Impostor syndrome”, la sindrome dell’impostore, quindi l’idea di non valere abbastanza, la paura che qualcuno ti scopra come il “fallimento che sei”. Nell’ambiente universitario qualcosa di fortissimo e io non ne sono immune. Per cui, quando ottieni dei riconoscimenti, questi hanno il valore di dirti: “Ok, la tua impostor syndrome per oggi mettiamola da parte!”. E parliamoci chiaramente, questo succede soprattutto alle donne. La società, sin dalla culla, insegna che una donna non cresce per imparare la matematica o fare un dottorato. Nella mia famiglia, per fortuna, le cose sono sempre andate diversamente. E questo succede nel mondo, l’Italia non è né più avanti né indietro a nessun altro: siamo cresciute per festeggiare se ci sposiamo. Alla gente che mi chiede perché a 32 anni non mi sono sposata dico: “Perché ho avuto un bambino, il mio bambino è il mio dottorato. Ho cresciuto il mio dottorato”. Purtroppo impari ad elaborare determinate risposte per domande che sono di una tristezza allucinante.

Immagini di cambiare ancora o credi di aver individuato il tuo “posto” in cui mettere radici?

Io per un po’ ho messo radici, anche perché nel mio ambito ti fa bene rimanere all’interno di un’istituzione e creare legami solidi. Non escludo un rientro in Italia tra qualche anno: avevo giurato che non sarei tornata in Inghilterra e ci sono comunque tornata. Avevo giurato che non avrei mai assaggiato il piccante (lo so, sono calabrese) e ora metto il peperoncino nella pasta sempre. Quindi, nella vita, mai dire mai. Sono molto legata all’Italia, sono molto legata alla mia terra. Fino a qualche anno fa ho mantenuto anche i contatti di collaborazione con l’Università Mediterranea.

A quali “condizioni” ritorneresti in Italia?

L’Italia mi ha dato tanto. A me piacerebbe anche “restituire”. Però si deve anche far capire che restituire non è un dovere e che si deve essere messi nelle condizioni di farlo. E gli incentivi fiscali non sono la sola risposta. Io amo l’Italia più dell’Inghilterra, certamente, ma in questo momento quel paese mi ha permesso di avere un contratto a tempo indeterminato e di fare il lavoro che amo.

In questa tua forza e in questa tua energia c’è una “matrice” calabrese? Crescere in questa terra ti ha dato una marcia in più o te l’ha tolta?

Io sono una calabrese fierissima e penso che il luogo da cui provengo costituisca un buon 30% delle cose che ho fatto nella mia vita. Sono una testa dura, ok? E lo dico nell’accezione migliore del termine. Sono lo stereotipo cocciuto della donna calabrese. Sono rumorosa e caparbia, cresciuta sapendo che dovevo superare difficoltà. L’autobus che non c’è, le distanze, gli ingorghi e la fatica di raggiungere scuola. Sappiamo benissimo quali sono le realtà con le quali ci confrontiamo in Calabria: una terra che ti ispira e ti mette alla prova sempre.

Qual è stata la tua principale fonte di ispirazione nella vita?

Io sono legatissima alla mia famiglia. Penso che non puoi andare da nessuna parte se non hai delle radici: l’albero senza radici non riesce a crescere, e mi ritengo molto fortunata ad averne. Sarà anche la professione che svolgono i miei – in particolare mia mamma, in quanto donna – ma ho avuto esempi brillanti. A casa mia la disparità di genere non esiste, papà mi ha sempre supportato (ad oggi è quasi un “vanto” – purtroppo). Mentre io ero all’asilo nido i miei genitori combattevano la mafia nelle strade di Palermo. Mi hanno insegnato il valore della legalità e del lavorare con passione e spirito di sacrificio. Mi hanno sostenuta nei miei studi e mi hanno sempre spinta ad ottenere un titolo in più, piuttosto che a ‘sistemarmi’. Mia madre, come donna, non ha mai abbassato la testa con nessuno, è sempre stata una persona fortemente ambiziosa, determinata, tenace e testarda, in tutti i sensi (sorride). Quando le persone che mi conoscono mi dicono “Sei come tua madre” io ne sono orgogliosa. Sono cresciuta con questo modello e l’ho ritrovato anche nelle donne più grandi di me con le con le quali lavoro.

Localizzazione delle imprese, divario città-campagna, trasformazione verde. I modelli delle tue ricerche possono applicarsi, e come, alla realtà calabrese, per uno sviluppo possibile e misurabile?

 È una domanda molto grande e che potrebbe richiedere risposte complesse, però la prima che mi viene in mente è una: le infrastrutture. Non parlo solo di trasporti ma di connettività – ad esempio – di infrastrutture soft.

Ci sono tanti esempi, di tanti paesi più piccoli e con risorse meno importanti, anche da un punto di vista territoriale, che sono riusciti a venir fuori dalla “trappola” dell’essere bloccati in una soglia di reddito, per esempio. La Calabria ha bisogno di investimenti pubblici mirati. Quando io vado a studiare come e perché si localizzano le imprese, quello che sto facendo è andare a capire quali sono le politiche di attrazione degli investimenti. Politiche che devono essere ritagliate sul tipo di imprese che vogliamo attirare. Dire “Attraiamo investimenti” per me non vuol dire niente. Quali investimenti stiamo tentando di attrarre? Investimenti di logistica nel porto di Gioia Tauro? Imprese di servizi avanzati? Bene, bisogna fare investimenti pubblici che siano mirati a quel tipo di interessi e a quel tipo di funzione nella catena del valore. E poi, assolutamente, anche i trasporti: le infrastrutture di trasporto nei diversi contesti – da Paesi in via di sviluppo a Paesi che si trovano alla base della scala di reddito globale – sono uno strumento utile non solo per spostare le persone o le merci, ma favoriscono scambi di conoscenza – che sono fondamentali – perché gli scambi di conoscenza generano innovazione e senza innovazione non c’è crescita. Noi abbiamo tante realtà in Calabria, anche universitarie, come l’Università di Cosenza che so essere una realtà formidabile dal punto di vista dell’innovazione. Dobbiamo replicare quel tipo di strategia. Idem nel settore dell’Agricoltura: innovare significa anche combattere lo sfruttamento, digitalizzare, ma per questo occorrono investimenti mirati. Non possiamo dare soldi che vengono poi perduti in settori che non sono competitivi. Quel che posso dire è che io sono assolutamente felice e disponibile di poter dare il mio contributo, anche a una riflessione e a una analisi, per la mia Calabria. E mi auguro che la mia sia una testimonianza positiva, per le persone giovani che vengono da questa terra, che ha così tanto e che ancora non riesce a dare come dovrebbe.

 

** Dalila Ribaudo è un’economista applicata interessata alle scelte di localizzazione delle imprese multinazionali nelle città, all’effetto degli investimenti diretti esteri in tecnologie verdi con una prospettiva regionale, e alle dinamiche alla base del divario tra città e campagna nella produttività e nella sopravvivenza delle imprese; recentemente ha iniziato a lavorare sull’effetto del cambiamento tecnologico e del commercio internazionale sul divario salariale di genere. 

 

Ricercatrice accreditata presso l’Istituto Nazionale di Statistica nel Regno Unito, utilizza principalmente tecniche quantitative e microdati a diversi livelli di analisi (ad esempio, brevetti, imprese, investimenti, città). 

TW: @DalilaRiba

IN: https://www.linkedin.com/in/dalila-ribaudo-phd-97a935b8