Alla scoperta dell’identità del vino calabrese. Intervista con Giovanni Gagliardi

GiovanniG2Giovanni Gagliardi, calabrese doc, si occupa di fund raising e pubbliche relazioni nell’ambito di importanti manifestazioni culturali. Nel 2005 dà vita ad Enoica, con cui sviluppa progetti legati al settore vitivinicolo, svolgendo collaborazioni con gruppi di aziende e consorzi di tutela in Toscana e Calabria. E’ responsabile della comunicazione di WineJob.it, il primo portale italiano di recruitment del settore vitivinicolo.

Dal 2009 è responsabile del sito vinocalabrese.it. Con lui parliamo dello stato attuale e delle prospettive future del settore vitivinicolo calabrese.

Il settore vitivinicolo calabrese sembra che abbia registrato un forte sviluppo negli ultimi anni. Solo una questione di quantità o è davvero migliorata la qualità dei vini che si producono nella nostra regione?

Tutto tranne una questione di quantità. Anzi in tanti casi la quantità è diminuita a favore della qualità. Nel decennio 2000-2010 secondo i dati Istat abbiamo registrato un calo della produzione complessiva del 2,6% con un dato incoraggiante che riguarda i vini a denominazione che occupano la fascia più alta della piramide della qualità. Ma la cosa più interessante che si è potuta registrare è stato il riconoscimento del fermento calabrese dal cosiddetto “mondo del vino”. Non è solo una questione di qualità, perché la qualità è un prerequisito comune a tutti, la tecnologia e le nuove conoscenze produttive sono, ormai, diffuse trasversalmente nel mondo, quello che si è visto e che tutti hanno notato è stato un orgoglio calabro rinato. Dal Melito Porto Salvo al Pollino tutti i produttori e le istituzioni hanno cominciato a credere nella propria identità, hanno piantato vitigni autoctoni, hanno cominciato a comunicare quello che facevano.

Quanto pesa l’industria del vino nell’economia della regione?

Se prendiamo i dati relativi solo alla produzione del vino, pesa poco tendente al nulla. Infatti le politiche di promozione fino a qualche anno fa erano indirizzate solo all’olio di oliva che pesa davvero tanto. Ma se il dato lo analizziamo nel complesso e soprattutto analizziamo il valore intrinseco che il vino porta all’economia regionale il discorso cambia notevolmente. Mi riferisco al valore evocativo, di rappresentazione di un popolo e di un territorio che economicamente è quantificabile. Come stimolo al consumatore, come motivazione di investimento di imprenditori di altri settori e soprattutto come occasione di start up per nuove aziende di giovani imprenditori. Ma su tutto il peso si può registrare in quello che il virtuosismo che si crea tra vino e prodotti tipici: vanno insieme e il vino, molto spesso, tira la volata alle nostre produzione agroalimentari di qualità.

Vino e turismo. Quanto c’è ancora da fare?

In Calabria c’è da fare tutto, per questo voglio stare in questa magnifica regione. Quel poco che esiste è quasi tutto spontaneo, ovvero turisti giungono nella nostra terra per il mare, soprattutto, e le montagne e tra le attività inseriscono una gita una località d’arte, una cena in un ristorante di qualità e la visita e la degustazione in una delle nostre cantine. Se questa attività spontanea e questa tendenza internazionale denominata “enoturismo” fosse razionalizzata non solo incentiverebbe quanti già arrivano in Calabria per le ferie ma soprattutto farebbe muovere altra gente, soprattutto quella, che sta diventando maggioranza, che va alla ricerca di nuove esperienza per tutto i sensi e di emozioni da “consumare” anche in un solo fine settimana.
Da non sottovalutare lo sbocco commerciale immediato che avrebbero i produttori. Come dice il mio amico Gennaro Convertini che di questo si sta occupando, potrebbe risultare per la taglia delle nostre aziende, spesso molto piccola, un occasione di vendita irripetibile nei canali storici: la ristorazione e la grande distribuzione.

Cosa possono fare le istituzioni a sostegno di questo settore?

Due cose. Dovrebbero individuare chi ha competenza e passione (caratteristiche che si trovano principalmente tra chi il vino lo produce) e innescare fermenti virtuosi. Mi spiego. Penso che le istituzioni debbano intervenire a sostegno del privato e non in alternativa al privato e addirittura, come avviene dalle nostre parti, sostituendosi al privato. Non ha senso che nell’organizzazione delle grandi fiere, per fare un esempio, ai produttori si chieda all’ultimo minuto di partecipare e basta. Si potrebbe fare un ragionamento complessivo e trarre indicazioni e ispirazione da chi è impegnato ogni giorno, per campare, a raccontare la storia del suo vino, della sua vita imprenditoriale e soprattutto del suo territorio. Altra attività importante è relativa alla comunicazione istituzionale del marchio ad ombrello Calabria: questo è un compito che per impegno finanziario e per natura non si piò lasciare ai privati, non avrebbe senso. Ogni altra attività in questo senso è perdita di tempo e soprattutto di risorse. Questo è già registrabile ora, immaginatevi tra qualche anno.

Vino naturale, biologico o organico. Ci sono esperienze di questo tipo in Calabria?

In Calabria convivono tutte le esperienze del vino e le tendenze produttive. Vince in questo momento chi fa agricoltura convenzionale. Mi sento di dire che spesso, però, tanti produttori dimenticano la capacità produttiva della nostra terra che come hanno riscontrato tutti, da Plinio il Vecchio in poi, rappresenta un unicum. Come dicono alcuni miei amici produttori, in Calabria fare biologico o vino naturale è un gioco da ragazzi, terra e clima lo permettono spontaneamente, spesso si usa tecnica e ricerca scientifica anche quando non serve.E oggi produrre un vino non omologato fa la differenza in termini di mercato.

Un consiglio ai produttori di vino calabresi

Il consiglio principale è quello di attivare un confronto vero tra produttori, perchè naturalmente si condivide un obiettivo che è già comune: produrre bene e vendere il vino e il territorio. L’altro è quello di innescare un confronto con gli altri territori: stappare bottiglie di altri produttori e fare autoformazione, e infine cercare nella propria memoria e fare affiorare l’identità del proprio vino. Voglio raccontare un episodio che mi ha segnato molto in questo senso. Quando mi sono avvicinato una decina di anni fa all’Enomondo ho organizzato una cena con produttori del mio territorio, un enologo e mio nonno. Era il periodo delle barriques, delle concentrazioni e dei vini rotondo e robusti. Mio nonno non comprese il motivo che spingeva me e gli altri commensali ad apprezzare questa trasformazione della gusto, lui saggio contadino pubblicamente si dissociò dal nostro pensiero. Oggi a distanza di 10 anni il mercato e le tendenze danno ragione a lui. Si può vendere solo quello che si è. Aveva ragione il mio amico che quando ho iniziato a strimpellare la chitarra mi suggerì di suonare prima le tarantelle che il rock inglese.