Civita è un paesino che conta poco meno di mille anime incastonato nel vasto territorio del Parco Nazionale del Pollino, versante calabro. Mirë se na erthëtit Çivit, katund Arbëreshë, Benvenuti a Civita, paese italo – albanese. All’ingresso del paese la segnaletica bilingue ricorda che Civita è un paese di cultura arbëreshë, termine col quale vengono indicate le varietà linguistiche albanofone parlate dai discendenti degli albanesi che giunsero in Italia tra il XV e il XVIII secolo, dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg e la conquista dell’intero territorio albanese, antica Illiria, da parte dei turchi ottomani, insediando numerose colonie nell’Italia centro – meridionale ed in Calabria particolarmente.
Chi vi giunge rimane subito colpito dalla cura che negli anni è stata riservata al suo centro storico. Sono apprezzabili in particolare una pavimentazione di pregio nella piazza principale e la qualità dei recuperi architettonici effettuati sugli immobili situati nel cuore del paese, che, insieme, fanno sembrare questo piccolo borgo un perfetto set cinematografico, dove ogni cosa è al suo posto.
Uscendo dal centro abitato, non lontano dal noto “Ponte del Diavolo” che collega pericolosamente i due versanti del canyon scavato dal fiume Raganello, ci si imbatte in un museo davvero speciale: l’Ecomuseo dell’Antica Filanda di Civita. Si tratta per l’appunto di un vecchio stabilimento di lavorazione della lana, trasformato, grazie ad una serie di investimenti pubblici che negli anni l’hanno riguardato su interessamento del Comune e della Comunità montana del Pollino, in un museo di archeologia industriale.
La particolarità della Filanda Filardi, dal nome della famiglia che agli inizi del secolo scorso ne aprì i battenti, consisteva nel funzionamento idraulico dei macchinari preposti alla cardatura ed alla filatura della lana. Posizionato sullo scoscendimento del tratto finale del fiume Raganello, l’opificio funzionò infatti, esclusivamente per un certo periodo, ad energia idraulica, ottenuta sfruttando il salto d’acqua da due grosse vasche installate nelle sue vicinanze.
Il suo valore sul piano storico è notevole, sia per le implicazioni socioeconomiche che la sua attività ha avuto per lunghi decenni sulla comunità civitese, sia per il rapporto di integrazione che essa ha avuto col sistema produttivo rurale nell’area del Pollino. Non solo. Come hanno fatto notare alcuni recenti studi sull’argomento, essa era parte integrante di un panorama economico – produttivo, quello ai piedi del massiccio del Pollino, attraversato dal fiume Coscile e dai suoi affluenti, così come dal Raganello e dal Lao, in cui erano presenti non pochi opifici che traevano la forza motrice dai corsi d’acqua. Si pensi che una Carta Idrografica d’Italia della fine del secolo XIX segnalava in questa zona della Calabria ben 60 opifici a spinta idraulica, tra mulini, frantoi, gualchiere e centrali elettriche.
Non c’è dubbio che l’acqua costituì una delle maggiori risorse di queste vallate e quasi certamente uno dei fattori che più di altri determinarono il profilo, le fattezze, delle specializzazioni produttive dell’area. E questo spiega anche il perché si scelse per la filanda di Civita quella tipologia di funzionamento dei macchinari anziché un altro.
Di tutti gli antichi impianti idraulici che insistevano in questo territorio, pochissimi sono ancora quelli percepibili come tali, e nessuno di essi, ovviamente, è funzionante. Ci sono poi non pochi casi in cui vecchi stabili adibiti in passato a manifatture hanno subito interventi di ristrutturazione, di riqualificazione funzionale, che, se da un lato hanno favorito la conservazione dei fabbricati, dall’altro ne hanno evidentemente travisato la fisionomia primigenia. Cosicché, proprio gli elementi costitutivi di tali strutture, come le saracinesche di accesso dell’acqua, le canalizzazioni, le vasche, i dispositivi in pietra, legno e metallo necessari per l’utilizzazione a fini produttivi dell’energia idraulica, nella maggior parte dei casi, sono andati irrimediabilmente perduti.
Fa eccezione, ordunque, in questo panorama, la Filanda Filardi, oggi museo di archeologia industriale, che, a buon diritto, può essere assurta a paradigma di una certa specializzazione tecnico-produttiva che per anni ha caratterizzato l’economia dei territori cui ci stiamo riferendo. Al netto, naturalmente, della specificità rappresentata da questo stabilimento nell’ambito della manifattura collegata al sistema agro-pastorale.
Il museo, gestito da una cooperativa del posto, introduce dunque il visitatore alla conoscenza di un’antica arte manifatturiera, quella della lavorazione della lana, che a Civita ha avuto nei decenni una funzione sociale importantissima, ma anche di uno spaccato di vita economica e produttiva del territorio con le sue peculiari specializzazioni tecnico-professionali.
Esso è strutturato in tre ambienti, ciascuno con una sua specifica funzionalità. C’è l’immobile dell’ex depuratore cittadino, recuperato intelligentemente ad una funzione di servizio, che funge da zona di accoglienza e da biglietteria; ci sono gli ambienti dell’opificio, che costituiscono il cuore del museo, dove il ciclo produttivo è interamente visibile grazie al recupero integrale dei macchinari, delle attrezzature, degli utensili, che ne consentivano lo svolgimento; c’è infine il manufatto che ospitava un mulino ad acqua, adiacente la filanda, dove sono stati allestiti una serie di pannelli informativi che spiegano la funzionalità dei macchinari e l’intero processo produttivo.
L’Ecomuseo dell’Antica Filanda di Civita, anche per via delle attività di corredo che è in grado di mettere in campo, dalle visite guidate sul territorio ai pacchetti didattici per le scuole e i gruppi di visitatori, fino ai laboratori intensivi ed all’attività seminariale, costituisce un esempio virtuoso di promozione della cultura e di valorizzazione del territorio, di riqualificazione ambientale di aree degradate e di implementazione di azioni volte allo sviluppo dei sistemi turistici locali.
L’esempio, insomma, di una Calabria conscia delle sue potenzialità, che guarda al futuro investendo sulle vestigia del suo passato.