Alla scoperta del nuovo album di Cecè Tripodo, cantautore calabrese

“La musica non potrà mai finire, come tutte le emozioni”. È questa la frase che mi risuona più volte nella testa dopo aver terminato la mia chiacchierata con Cecè Tripodo, 20 anni, di Reggio Calabria, professione cantautore.

Una telefonata non iniziata nel migliore dei modi: con la sottoscritta che imprecava ad un telefono che squillava a vuoto e lui che nel rispondere ha sentito tutto. Aggiungiamoci anche che ho fissato l’appuntamento telefonico alle ore 9:00, un orario non proprio consono per uno studente universitario che ha scelto di scrivere e comporre musica.

Ma non appena entriamo nel vivo della nostra conversazione, Cecè mi travolge di parole che dalla musica toccano la letteratura, l’arte, la poesia passando per il viaggio. Sì perché il comune denominatore di questo suo percorso da cantautore è un viaggio nella suggestiva Irlanda all’età di 17 anni.

Come è nata l’idea di fare un viaggio in Irlanda?

L’esperienza dell’Irlanda mi piace chiamarla “un miracolo”. Sono partito per una questione vitale, in cui mi stava tutto un po’ stretto. Ho iniziato a suonare per strada perché in Irlanda gli artisti di strada sono molto apprezzati. Il miracolo deriva dal fatto che è come se mi si fossero sviluppate delle emozioni a rilascio lento che col tempo si sono trasformate in musica.  Dopo anni ad esempio mi è successo di scrivere un pezzo e rendermi conto di essermi ispirato a quel viaggio. Un’esperienza che è paragonabile a quegli amori veri che scopri pian piano e ti entrano dentro.

Dalla musica di strada Cecè giunge a suonare nei pub d’Irlanda grazie ad un incontro fortuito e al suo rientro in Italia, dopo più di un anno, inizia a lavorare al suo primo Ep, che però lui preferisce chiamare album.

Dall’Irlanda sei tornato non in Calabria ma ad Arezzo dove studi Lingue e letteratura. Come si coniuga l’università con la scelta di fare il cantautore?

Io non credo che una cosa serva soltanto ad una cosa, come ad esempio non credo che chi, ad esempio, sceglie di laurearsi in giurisprudenza possa fare solo l’avvocato. Il corso di laurea che frequento, mi permette di scoprire la grammaticità della lingua, oltre a culture diverse. La scelta di fare musica è nata da un bisogno, il bisogno di tradurre le emozioni. Oggi l’ho fatto con la musica ma non escludo che domani possa farlo con la poesia o con la lingua.   

E a proposito di grammaticità, il tuo primo album si chiama “Il Bivacco”. Come mai questo nome?

A parte che se ci pensi ha un bel suono, l’ho chiamato così perché quando ho preso la decisione di ideare il mio primo Ep non sapevo che ci sarebbe stato tutto questo lavoro dietro. E allora ho pensato che speravo di poter bivaccare dopo questo album. E da qui è venuto fuori il nome “Bivacco”.

Ascoltando alcune tue canzoni mi vengono in mente le ballate di De André o Guccini. Quanto hanno influenzato la tua musica?

Sono cresciuto a pane e De André ma anche Guccini. Era inevitabile che mi influenzassero. Però ho fatto una ricerca che potesse uscire dal cantautorato italiano dove la musica è più che altro accompagnamento del testo. Ho cercato dei musicisti che fossero consci dello strumento che stavano suonando. Siamo sei elementi però scelti accuratamente.      

Quanto invece c’è di Calabria nel tuo album e nelle tue canzoni?

La Calabria esiste perché è nelle mie radici. Non potrebbe essere diversamente. C’è ad esempio un pezzo che ho scritto in Calabria che si chiama “Fimmina i paisi”. A parte il titolo, il testo però è in italiano e racconta di questa donna meravigliosa che riesce a far cambiare idea a quegli uomini che hanno radicato il pensiero della famiglia patriarcale. Amo le donne, le trovo splendide e la presenza femminile ha uno spazio nella mia musica che va oltre la normale percentuale. A parte questo però nel mio album c’è spazio per altro perché mi piace andare sempre alla ricerca di cose nuove e sentirmi cittadino del mondo. Questo album non è stato ad esempio prodotto in Calabria semplicemente perché mi trovavo altrove. Di certo non perché penso che le cose in Calabria non si possano fare. Anzi, credo che in Calabria ci sia un grosso fermento musicale.

C’è quindi secondo te ancora spazio per la musica in Calabria, come altrove?

Certo che sì. Quando sento dire che la musica è morta mi viene da ridere. Non è possibile che la musica muoia. È naturale che cambi e si evolva ma questo succede oggi come all’epoca di De André e Guccini e com’è successo nell’arte con il Barocco e con tutti gli stili diversi che si sono susseguiti nella letteratura. Allo stesso modo nel panorama musicale ci sono musicisti che continuano ad evolversi. In Calabria penso a I Musicanti del Vento, un gruppo cosentino le cui canzoni partono da una musicalità etnica e folcloristica  per poi sfociare in una testualità pazzesca. Nel panorama nazionale mi vengono poi in mente grandissimi musicista come Bobo Rondelli Alberto Romagnoli che fa un genere totalmente diverso dal mio ma i cui brani sono a mio avviso meravigliosi.  

La nostra chiacchierata giunge al termine e, come dopo ogni intervista ai nostri giovani talenti, mi sento sempre un po’ più arricchita perché non si fa altro che parlare di queste nuove generazioni prive di valori ma mi piace pensare a tutti coloro che ogni giorno ci dimostrano il contrario. Con la musica, con la poesia, con l’arte, con il design.

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