Il Buco, dalle grotte al red carpet di Venezia: Yes Calabria incontra lo speleologo Giovanni Gurrieri

Un mestolo di riso e un pugno di frutta secca, giorni e giorni di marcia a piedi, la compagnia di fidati asinelli per trasportare il necessario. Una torcia, e pochissime altre cose con sé.

L’essenziale.

Per esplorare un pianeta “sconosciuto” che, tuttavia, palpita nelle viscere del mondo che abitiamo.

Giovanni Gurrieri ha 35 anni. Vive a Pozzallo, la candida cittadina marinara, in provincia di Ragusa, dove al tramonto i pesci guizzano fuori dall’acqua azzurra e calma del porticciolo, con una tale grazia da non incresparne neanche la superficie.

Di quella grazia Giovanni ha colmi gli occhi sebbene, più che il mare, sia stato il richiamo della terra a farlo “innamorare”.

Speleologo, volontario del Soccorso Alpino, istruttore nazionale, viaggiatore, scalatore. Ma anche apicoltore e custode della natura.

Giovanni è un grande esperto nell’arte temeraria e affascinante delle esplorazioni delle grandi altezze e delle inimmaginabili profondità della terra, in Italia e all’estero.

Talmente esperto da essere stato scelto per far parte della troupe specializzata del film “Il Buco” di Michelangelo Frammartino, l’opera pluripremiata alla Biennale di Venezia che ha colpito cineasti e cinefili per aver rivelato la magnificenza e il fascino dell’Abisso del Bifurto, la grotta del Pollino calabrese profonda 700 metri e divenuta famosissima per l’impresa che ne ha rivelato al mondo lo stupore.

Yes Calabria ha incontrato Giovanni per farsi portare per mano in quei luoghi proibitivi ai più.

Luoghi tanto aspri quanto entusiasmanti che, grazie al film di Frammartino, sono stati svelati al grande pubblico, catturandone il cuore.

Temerario e calmo, coraggioso e riservato, Giovanni ha il dono della sobrietà, anche quando ci racconta delle sue incredibili avventure. E, mentre parla, stilla poesia, come i pesci della sua Pozzallo sull’acqua chiara del golfo siciliano.

 

DALLA SICILIA ALL’UZBEKISTAN E AL POLLINO

GIOVANNI E L’ARTE DI ESPLORARE LE VISCERE DEL PIANETA ( E SÉ STESSI)

 

Giovanni, come nasce questa tua passione per la speleologia?

Ho iniziato nel 2008. Ho conosciuto la speleologia tramite un amico che mi ha portato nella mia “prima grotta”. Era piccola, ma mi aveva incuriosito tantissimo. Tutto mi sarei aspettato, tranne che di trovare un mondo così bello. Stupore, questo ho provato. Quando si entra in una grotta non ci si aspetta di trovare una miriade di concrezioni, di giochi formati naturalmente dal calcare. Sono ambienti particolari, strani. Non abbiamo il sole, dentro le grotte. L’orologio si ferma, è come perdersi nei propri pensieri. Nella grotta non esiste il tempo.

Dalla passione alla formazione: come sei diventato uno speleologo professionista?

Nel 2009 ho seguito il corso di speleologia allo Speleo Club Ibleo di Ragusa e, da lì, è stato un susseguirsi di conoscenze, esperienze e studio, con amici e speleologi da cui sono poi nate anche avventure bellissime.

Ci sono delle esplorazioni che ti sono rimaste particolarmente nel cuore?

Tra quelle che ricordo di più c’è certamente l’esperienza alle Gole del Raganello, in Calabria. Adesso le gole sono interdette, a causa dell’alluvione che negli anni scorsi provocò anche dei morti.

Stavamo scendendo nella zona delle cascate. C’era un dislivello di 500 metri: l’idea era quella di scendere le cascate, imboccare un sentiero indicatoci dai pastori del luogo e arrivare alle macchine. Però quel sentiero esisteva fino a venti anni prima. Percorsa la strada, ci trovammo in un punto morto e dovemmo fermarci: avevamo solo le mute. Niente cibo o acqua. Eravamo in sei. Con una torcia sola. Abbiamo dovuto aspettare l’alba. Con la luce del sole siamo ripartiti e abbiamo percorso 13 chilometri di fiume per arrivare a Civita. Ecco, noi avevamo esperienza e tutto sommato siamo rimasti calmi. Ma, ovviamente, la preparazione è essenziale quando ci si trova in queste situazioni.

Tu sei stato tra i protagonisti di spedizioni epocali all’estero: vuoi parlarcene?

L’esperienza in Uzbekistan rientrava in una spedizione italo-russa.

Si trattava della spedizione internazionale Dark Star 2014 di Baysun Tau, che ha riguardato una porzione della Hodja-Gur-Gur-Atà, nella lingua locale “Il padre delle grotte”. Coordinata dallo Speleo Club Ekaterinburg, la spedizione era stata patrocinata dall’Associazione Geografica La Venta e tra i quattro italiani c’ero anche io.

 Il progetto ha avuto il patrocinio della National Geographic Society, che ha anche inviato un giornalista e due fotografi: gli americani Mark Synnott e Matt Oliphant e l’Inglese Robbie Shone.

Si tratta di spedizioni davvero fantastiche, con La Venta Spedizioni geografiche in prima linea anche nel progetto “Rio La Venta” che portò alla scoperta della grotta di Naicae dei suoi famosi cristalli giganti, nel canyon del Chiapas (Messico). In Uzbekistan abbiamo piazzato dei campi interni. Siamo scesi fino a -970 metri. L’obiettivo era continuare a topografare ed esplorare questo sito. Non siamo scesi ancora moltissimo rispetto a quanto fatto prima di noi, ma abbiamo esplorato altre gallerie e rami laterali. C’erano studiosi che prelevavano campioni da analizzare, biologi tedeschi e una squadra scientifica che studiava le caratteristiche di habitat così incontaminati.

Quale è l’emozione più grande, la molla che ti spinge ad andare sempre più nel profondo della terra e, poi, ancora oltre?

È proprio quella di scoprire qualcosa di mai visto. Mi trovo a entrare in una galleria e pensare: “Prima di me nessuno qui ci ha messo piede”. L’emozione di esplorare luoghi puri, ecco.

Hai mai paura?

Alla base della speleologia c’è tanta preparazione. Sono entrato nel Soccorso Alpino, sono speleologo e tecnico di soccorso, ho alle spalle un percorso che mi ha portato a lavorare sulle funi. Insomma, tecnicamente c’è una preparazione che ti dà sicurezza. Non  sono ammessi azzardi. E c’è anche un percorso che riguarda un livello più profondo, che ha a che fare con l’autostima.

Si scende nelle grotte ma anche dentro sé stessi…

Sicuramente: pian piano, andando in grotta si impara a conoscere le proprie capacità e a capire fin dove ci si può spingere. È graduale. Si va in gruppo, per potersi aiutare, e non bisogna dimenticare che il Soccorso alpino speleologico è volontariato, ma anche una attività di mutuo soccorso.

Dunque nessuna paura?

Sono onesto, sì. Ci sono stati dei momenti in cui ho avuto paura. Una volta in modo particolare…

Cosa successe?

In Uzbekistan eravamo a -800 metri e dormivamo anche per una settimana laggiù. Per arrivare sul sito abbiamo prima viaggiato in autobus , poi su un camion militare russo per sette ore. Quando il camion non ha potuto proseguire, ci hanno fatto trovare venti asini, utili per trasportare gli attrezzi e lo stretto necessario. Quando persino gli asini non hanno potuto proseguire per l’impervio cammino, abbiamo continuato – ancora e sempre a piedi, per altri due giorni – trasportando noi stessi quanto serviva. Arrivammo infine a un plateau, a 4000 metri di quota. Da lì un’altra ora di cammino per giungere a una parete alta cento metri e infine all’ingresso di questa grotta: un giorno ci calammo dentro io e un altro compagno di spedizione per una topografia a -800 metri. Eravamo soli: sette ore di discesa di corda. Arrivati in questo cunicolo avevamo capito  che ci trovavamo in una ramificazione ad anello. Decidemmo di dividerci, per verificare se l’intuizione fosse corretta ma, a un certo punto, si staccò un masso che mi incastrò la gamba. Rimasi lì in attesa che il compagno tornasse. Non avevamo un modo per comunicare. Riuscii per l’adrenalina a spostare la gamba ma era livida. Non potevo muovermi.

Come andò a finire?

Posso dire solo che una delle cose più belle che ricordo è stato intravedere, dopo un paio d’ore, la luce della torcia e sentire il rumore degli attrezzi del mio compagno. Mi diede una caramella (sorride): la caramella più buona della mia vita! Del resto, in missione in Uzbekistan mangiavamo un mestolo di riso e un pugno di frutta secca. Non possiamo portare troppe cose con noi.

La speleologia sembra affine a un percorso zen. Ma cosa spinge a superare i propri limiti, ogni volta?

Quando sei mille metri sotto terra percepisci tutto con una particolare intensità. Se senti un flusso d’aria, o avverti la pressione dell’acqua, qualcosa scatta dentro di te. Si hanno intuizioni basate sull’esperienza e, quando queste si rivelano fondate, nasce una immensa soddisfazione: la gratificazione è questa, il piacere della scoperta. Questa voglia di soddisfare questa sensazione ti porta a non fermarti. Ma lo fai anche perché sai di avere con te un compagno di squadra con cui ti senti al sicuro.

Quali sensazioni si ricavano immergendosi nel cuore della terra?

Immergendosi nel cuore della terra ci si trova faccia a faccia con sé stessi.

 

NELL’ABISSO DEL BIFURTO CALABRESE CON LA TROUPE DI FRAMMARTINO

 

Come è nato il contatto con il regista Michelangelo Frammartino?

Ci siamo conosciuti in Sicilia, dove Frammartino era arrivato per provare l’esperienza di dormire in grotta, a Castellammare del Golfo, con un grande amico e speleologo “vissuto”, Nino La Rocca, che ci ha sempre ospitati in Calabria quando andavamo a esplorare il Bifurto. In quella occasione il regista ha fatto anche prove di registrazione audio. Quando, infine, hanno deciso di realizzare il film sono stati contattati tecnici del Soccorso alpino speleologico di tutta Italia e, tra questi, c’ero io.

Quanti speleologi specializzati ci sono in Italia?

Siamo tremila in tutto.

Quanto sono durate le riprese?

Tre mesi. Sei settimane in grotta. Sei settimane fuori grotta.

Quali sono le caratteristiche geomorfologiche dell’Abisso del Bifurto?

Questa grotta è un inghiottitoio, vale a dire che si è formata grazie all’erosione delle rocce carbonatiche, causata da un torrente costretto dalla morfologia esterna a farsi strada proprio in quella frattura.

 

Quale la sua particolarità rispetto ad altre grotte?

Ha uno sviluppo verticale, dall’ingresso al fondo c’è un dislivello di quasi 700 metri ed è caratterizzata da pozzi di grande diametro che evidenziano la potenza dell’acqua.

 

Come hai conosciuto questo sito e quanto tempo si impiega per scendere giù?

Ho conosciuto questo sito una dozzina di anni fa andando ad esplorare alcune diramazioni a circa 400 mt di profondità in compagnia di amici speleologi che già conoscevano la grotta. Da lì sono andato diverse volte arrivando fino al fondo. Il tempo per scendere dipende principalmente da quanto materiale abbiamo addosso e dall’obiettivo che ci siamo dati: topografare, esplorare, scavare ecc.

 

Quali difficoltà si incontrano nella discesa?

Le maggiori difficoltà si incontrano nella risalita a causa della stanchezza, del freddo e della fame.

 

Da speleologo, e poi come tecnico sul set, come cambia la percezione della “grotta”?

Per me la percezione della grotta è rimasta uguale ma è stato interessante stare dietro la macchina da presa e sbirciare la percezione del regista.

 

Ci racconti i giorni in cui giravate? Avete avuto difficoltà particolari?

Girare in grotta ha comportato una mole di lavoro pazzesca: una troupe formata da tecnici con mansioni diverse si è trovata costretta a lavorare muovendosi in verticale mediante l’utilizzo di una corda; questo ha creato uno spirito di collaborazione mai visto prima, sembrava un formicaio. Non era raro girarsi e trovare il regista che magari piantava qualche chiodo o spostasse delle pietre.

 

Ti aspettavi tutto questo successo?

In realtà pensavo di essere così colpito dalle immagini perché sono sempre stato affascinato da questi ambienti ma non mi aspettavo potessero piacere così tanto al di fuori dell’ambiente speleologico.

 

Dalle grotte al red carpet: quali emozioni hai provato a Venezia?

Il red carpet a Venezia è stata una gratificazione inaspettata e un’esperienza che porterò nel cuore per tutta la vita!

 

Il film è in sala: cosa ti auguri che il pubblico colga da questa opera?

Mi auguro che da quest’opera ogni spettatore possa trarre un’esperienza di vita come se avesse vissuto le scene che il film propone.

 


LA CALABRIA NASCOSTA E IL TURISMO

 

C’è qualcosa che si può fare per valorizzare e far conoscere questo patrimonio calabrese?

A mio avviso le riviste online e offline fanno già un ottimo lavoro nello sponsorizzare questi patrimoni, così come i locali si danno molto da fare organizzando trekking, canyoning, escursioni a cavallo e quant’altro. Forse mancano dei finanziamenti concreti e agevolazioni burocratiche che aiutino i più giovani a scommettere sul proprio territorio anziché costringerli a portare le loro potenzialità fuori casa, come accade in altri settori.

Cosa può apprezzare un normale turista di luoghi come il Bifurto?

Ovviamente scendere in grotta è una esperienza unica ma accessibile solo agli esperti. Ci sono grotte turistiche in zona alle quali si può accedere senza l’utilizzo di funi e con l’aiuto di una guida locale. Il Bifurto no, perché è tutto in verticale. Ma questi luoghi hanno una attrattiva anche per altre ragioni.

Quale è questa attrattiva di cui parli?

Secondo me la parte interessante di questi luoghi, e ciò che davvero ti colpisce anche al di là del “Buco”, sono i paesini e le persone del Pollino.

San Lorenzo Bellizzi è un borgo incantevole. Quando abbiamo finito il lavoro in grotta sono rimasto a lavorare come macchinista e abbiamo girato molto. Ha quasi 600 abitanti, un paese salvo dagli obbrobri dell’edilizia degli anni ’90.

Quando risalivamo dalla grotta trovavamo ad attenderci il pastore Bonifacio con le sue capre. Stava lì, intento a intrecciare un cestino di vimini o a intagliare il legno con il suo coltellino. Stava lì, a raccontare storie.

C’è un tempo lento in questi luoghi. La magnificenza del paesaggio. La gente che rende belle queste terre.

Qui ci sono borghi nei quali gli abitanti ti fanno sentire il cugino lontano ritornato a casa, ti coccolano, con semplicità.

È questa la cosa che porti a casa nei tuoi ricordi: la loro disponibilità, il loro entusiasmo nel mostrarti un sentiero o uno scorcio nascosto per fare il bagno nel fiume.

È la loro purezza che ti affascina. E che resta per sempre, dentro di te.